
Pubblicato ore 12:00
Emilio Cacini, meglio conosciuto come Soldo di Cacio, è il protagonista del romanzo di Michele Cecchini “Il cielo per ultimo”, uscito nel 2019 per Bollati Boringhieri. In questa rubrica, il Cacini risponde alle domande dei suoi e dei nostri lettori.
Lettera n. 59
Carissimo Signor Cacini,
guardi, ho aspettato un po’ a scriverle perché mi sentivo sciocca alla mia età a scrivere a un personaggio di fantasia, ma poi mi sono anche detta che senza fantasia la vita non meriterebbe neppure di essere vissuta e quindi ho preso il coraggio a quattro mani e le scrivo spassionatamente.
Lei non immagina come apra il cuore leggere il suo bel linguaggio, mai retorico ma sempre interessante; non la prenda come una “captatio benevolentiae” ma mi creda che in alcuni passi che narrano la sua semplice ma non banale parabola umana ho rivisto un lirismo che mi ha ricordato il Manzoni, e una fresca sapienza che mi ha subito fatto pensare al mai troppo rimpianto Gianni Rodari.
Mi capita di recarmi all’alba alla Terrazza Mascagni, prima che la frenesia del mondo e dei bagnanti la rubi a noi insonni, e le chiedo: secondo lei c’è una rispondenza precisa della creazione al luogo di nascita del creatore? Ovvero, avrebbe potuto mai Mascagni, che ormai immedesimiamo così tanto con l’omonima Terrazza da farci quasi dubitare che essa venga prima di lui, come la gallina con l’uovo, creare una musica così al contempo schietta e potente ma a suo modo sbruffona se non fosse nato a Livorno?
O Giorgio Caproni, i cui versi frequento così tanto che lo chiamo Giorgino, come mio figlio, non le pare di sentire il sale sulle labbra quando ne legge una poesia a voce alta? Al tempo stesso lo scabro e burbero raschio della voce di Paolo Conte non saprei davvero collocarlo se non in quel Piemonte dove ho insegnato a lungo prima di tornare, e non sa quanto ho pensato a Giorgino e al suo “Biglietto lasciato prima di non andar via”, il manifesto della mia vita.
Grazie per la risposta che mi darà, ma soprattutto grazie della luminosità delle sue parole.
Flora, Sant’Jacopo in Acquaviva
Flora cara,
le sue parole gentili mi han fatto precipitare dentro a un gigantesco imbarazzo che ancor non m’abbandona. Sono accostamenti eretici, quelli che lei imbastisce, tra il personaggetto che mi ritrovo a essere io e codesti mostri sacri. Darò la colpa all’insonnia di cui dice. Ma prosegua nel deambulare alla Terrazza di buon mattino, mi raccomando: è abitudine sana e ad alto gradiente poetico.
Circa la questione che pone, mi verrebbe da dire che sì, forse forse il contesto interagisce con il discorso artistico di un individuo. Ma io sono appunto il personaggino di un romanzo, quindi apolide, dove mi metti sto, a limite risalgo alle pagine che mi hanno originato, per cui chissà.
Certo è che si potrebbe andare a lungo dietro agli esempi che lei fa. Il sarcasmo e l’ironia feroce di Cecco Angiolieri dove potrebbero altrimenti albergare, se non in Toscana?
Livorno per di più fa storia a sé. In una città dove nessuno è straniero, ha diritto di cittadinanza l’estro in tutte le sue sfaccettature, ciascuna declinata a suo modo e ciascuna in grado di raccontare la città. Per inciso: ha visto quante cose nel programma estivo presentato giorni fa?
Io credo – temo – che le storie si somiglino un po’ tutte, come i sentimenti che suscitano e da cui sono generate. Ciò che le rende uniche penso sia la veste che indossano. Per dirla meglio: lo sguardo, l’idea che ci sta dietro e che trova una cifra espressiva tutta sua.
A me piace in particolare quando queste storie sono il frutto di uno sguardo sincero e autentico. Quando insomma si percepisce bene da parte dell’autore l’urgenza di esprimersi. Forse la sincerità è davvero quel che rimane, Flora, al di là di tutto. Intendo come movimento spontaneo verso l’altro, senza calcoli e senza nulla in cambio. Zavattini sognava un posto dove “Buongiorno vuol dire veramente Buongiorno”.
Io ci tengo particolarmente alla gentilezza, Flora, lei lo sa. Bianciardi diceva che è rivoluzionaria, alla borghesia attribuendo la maleducazione. La gentilezza è una faccenda spontanea e non ha unità di misura. Per questo ad esempio non mi garbano tanto i “Questionari di gradimento”, o di soddisfazione, o di valutazione, o come diamine si chiamano, che ci vengono puntualmente propinati dopo avere usufruito di un servizio. Io penso che la mia opinione non sia poi così importante, per cui ci terrei a non esprimerla e anzi neanche necessariamente ce ne ho una. La finalità di “migliorare l’esperienza” nemmeno sarebbe affar mio, a dirla tutta. Io in queste circostanze metto sempre che m’è garbato tutto alla grande, con l’intenzione di pareggiare precauzionalmente i rimbrotti, le rampogne e i disappunti che immagino sempre dietro l’angolo in queste circostanze. Poi, per me, se uno non ne ha voglia, vanno bene anche i modi un po’ spicci e buonanotte. Almeno si esce dall’imbarazzo di una certa affettazione, garbata per carità, ma appiattita in formule di riguardo standardizzate e parecchio ghiaccine.
Ma forse sono un po’ sempliciotto. È che a quest’andazzo mi riesce male di adeguarmi. Vorrei tanto che Buongiorno volesse dire Buongiorno, senza l’aggiunta di puntini o stelline, che sono più di mio gradimento a guardarle nel cielo di queste sere di aprile.
Le mando un monte di abbracci, Flora, e mi stia bene.
Cacio
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