Letizia Battaglia, il ricordo di Serafino Fasulo: “Ha fotografato affinché il mondo sapesse”

Nel 2019 ai Granai di Villa Mimbelli, la mostra della fotografa

Serafino Fasulo e Letizia Battaglia. Foto: Alessandra Mangione
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Pubblicato ore 14:06

  • di Serafino Fasulo

La morte ci fa belli

Nel 2016 sono stato contattato dalla Fondazione Carlo Laviosa che mi ha proposto di occuparmi, con il ruolo di Direttore Artistico, delle attività che la Fondazione intendeva metter in campo. Abbiamo concordato di concentrarci sulla cultura del lavoro raccontata dalla fotografia. Una delle prime iniziative che desideravo realizzare consisteva in una serie di mostre dedicate a grandi autori. Avevo conosciuto, pochi anni prima, Letizia Battaglia in occasione di un workshop a Firenze e, benché la sua fotografia non parlasse direttamente di lavoro, mi era sembrato che potesse essere il primo esemplare personaggio da proporre, perché nel lavoro lei aveva trovato una grande risorsa per la sua affermazione di donna, di madre e di fotografa. Letizia Battaglia era dotata di straordinaria energia, di una sete di vita e d’informazione da ricevere e da dare. Quando le proposi di fare una mostra a Livorno, la prima cosa che mi disse fu che non desiderava essere identificata solo come la fotografa che aveva raccontato il dolore che la Sicilia e la sua amata Palermo avevano sofferto in virtù dei delitti di mafia. Voleva che la mostra raccontasse anche il suo desiderio di futuro, rappresentato dallo sguardo delle bambine, poiché anche nei momenti di grande dolore aveva sempre cercato la speranza.

Ieri sera abbiamo avuto dai TG e da un tam tam che ha scosso i social, l’annuncio della sua scomparsa. Le avevo scritto la sera prima, per proporle una collaborazione. Aveva 87 anni, alle spalle una vita ricca, turbolenta, faticosa.

Pochi giorni prima di morire aveva tenuto un workshop a Prato, non si era risparmiata mai benché negli ultimi tempi fosse costretta a muoversi sulla carrozzella. Non rifiutava inviti o interventi in prima persona. Letizia amava esserci ed era curiosa.

La ricordo, dopo l’inaugurazione della mostra ai Granai di Villa Mimbelli a Livorno, in casa Laviosa, durante un ricevimento in suo onore, seduta in poltrona con la sigaretta in mano – del resto non si curava dei divieti di fumo, ovunque fosse – circondata da una serie di personaggi che la omaggiavano, alcuni genuflessi come davanti a un presepe. Ricordo il desiderio di incontrarla di tanta gente, di rubarle un momento di intimità. Adesso ci misuriamo con le voci che corrono sui social e ci teniamo a dire “anch’io la conoscevo”. Sì, la morte ci fa belli e di un personaggio che ha dato tanto alla comunità, che ha speso la propria vita empaticamente, ci inorgoglisce dire “io la conoscevo”. È umano, ci fa sentire un po’ migliori.

Ora vorrei ricordala non parlandone al passato ma riproponendo quanto a suo tempo avevo scritto come presentazione al catalogo che accompagnava la mostra realizzato dalla Fondazione Laviosa e a lei dedicato, e quindi come se fosse ancora viva, perché chi lascia un’eredità importante per gli uomini non muore mai.

Strappa da te la vanità,
ti dico strappala.
Ma avere fatto in luogo di non avere fatto
questa non è vanità.
Ezra Pound, Canti pisani, 81

Letizia Battaglia nasce a Palermo nel 1935. Si trasferisce con la famiglia a Trieste dove ha un’infanzia felice. Tornata a Palermo, riceve le attenzioni di un esibizionista; rientrata a casa racconta l’episodio e ciò dà inizio ad un periodo difficile della sua vita. Protetta tanto da essere privata della libertà, appena sedicenne troverà nel matrimonio una fuga verso l’indipendenza. È giovane, piena di energie e desidera una famiglia numerosa: avrà tre figlie. Ma tra padre e marito la musica non cambia: l’amore che nutrono per lei, per limiti culturali, non permette loro di concederle il respiro della libertà che la sua natura e la sua intelligenza reclamano.
Mi sono sposata, volevo tanti figli, volevo essere felice. Invece le cose sono andate in maniera un po’ diversa. Però oggi, pensando alla mia vita, sono certa di non averla degradata, sono contenta di come sono andate le cose, non mi sono venduta, sono libera, dico il mio pensiero e non ho paura di dirlo, questo rende la mia vita non miserabile. 

Nel 1969 inizia la sua collaborazione con il giornale palermitano L’ora, scrivendo articoli di cronaca. Si separa dal marito e nel 1970 si trasferisce a Milano dove comincia a fotografare per varie testate. I giornali le chiedono fotografie a corredo degli articoli. Letizia è la prima donna fotografa a lavorare ufficialmente in una redazione giornalistica e fotografa di tutto: matrimoni, bambini, manicomi. Non dispone di una tecnica sofisticata, non viene da una scuola professionale e non ha una conoscenza approfondita della macchina fotografica. Tuttavia ha una grande consuetudine con le arti figurative che ha sempre seguito fino a farne una costante del suo universo culturale e sa esattamente come costruire un’immagine. L’incontro con Pasolini le permetterà di realizzare dei ritratti intensi che oltre alla capacità compositiva sottolineano il suo rapporto empatico con la realtà che desidera raccontare.

Da subito troviamo nel suo lavoro le caratteristiche della grande fotografia. La capacità di registrare la realtà con lucidità, anche se in situazioni estreme ed in maniera asciutta, non priva in alcun caso i suoi scatti di una forte ed intensa portata emozionale. Le linee guida dell’inquadratura conducono il suo occhio verso gli elementi più importanti della scena ma non le impediscono di andare a scoprire, nelle zone d’ombra, dettagli che aggiungono significato, mistero e inquietudine per una realtà incerta e dolorosa.

Avvicinatasi alla fotografia per necessità – questo le chiedevano i datori di lavoro e questo si doveva fare – Letizia Battaglia, una delle figure più rappresentative del reportage, prima donna europea ex aequo con l’americana Donna Ferrato ad essere insignita a New York nel 1985 del Premio Eugene Smith per il fotogiornalismo (assegnato annualmente a fotografi che si siano distinti per un punto di vista innovativo in ambito sociale, economico, politico o ambientale), ha da tempo cessato di essere considerata una giornalista per essere inserita tra le figure più rappresentative dell’arte fotografica.

Significativa è la sua opinione a tal proposito:
Credo che le mie foto entrando in un museo abbiano un po’ perso la loro funzione di denuncia perché è come se fossero state fagocitate da un luogo artistico che non è propriamente visto come un luogo di combattimento. Sono diventata un’artista mio malgrado, io non ero un’artista. Ero una persona che in qualsiasi modo voleva combattere la mafia. Con la macchina fotografica, con le scelte di vita, le persone con cui sono entrata in contatto, con tutto. Ora nei musei ho successo, ma nella mia visione questo toglie un po’ di forza al mio lavoro.

Nel 1974 ritorna a Palermo dove con Franco Zecchin crea l’agenzia Informazione fotografica (If), frequentata da Josef Koudelka e Ferdinando Scianna. Nello stesso anno inizia a documentare quelli che saranno vent’anni di delitti di mafia. Suoi sono gli scatti dei “cadaveri eccellenti” che portano i nomi di Cesare Terranova, Michele Reina, Boris Giuliano, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa, sua è la foto all’hotel Zagarella che ritrae gli esattori mafiosi della famiglia Salvo insieme ad Andreotti e che fu acquisita agli atti per il processo. Scatti dolorosi che la rendono una fotografa di fama internazionale; ma definire Letizia Battaglia “la fotografa della mafia” è senz’altro riduttivo. I suoi punti di riferimento sono i fotografi americani e, in particolare, Diane Arbus con quale condivide l’attenzione per gli ultimi e gli esclusi nonché la capacità di conquistare la fiducia del soggetto che si espone all’obbiettivo perché avverte che, dietro la macchina, anche la fotografa si sta mettendo a nudo e che si tratta quantomeno di una partita a due e non di uno scatto rubato.
Una fotografia è te stessa che ti inserisci nel mondo. È il tuo cuore che batte, la tua testa che pensa. Trasformi il mondo secondo quello che sei […]. Se sei fascista fai foto fasciste, se sei progressista fai foto progressiste.

Molti hanno fotografato i morti di mafia ma a rimanere impresse nella memoria collettiva sono le foto di Letizia Battaglia, perché il respiro delle sue inquadrature va oltre la mattanza, in un potente e nitido bianco e nero, “perché [rispetto al colore] è più rispettoso della realtà, ha una sua eleganza, una sua solennità”.

I suoi scatti si prefiggono di raccontare soprattutto Palermo nella sua miseria e nel suo splendore, i suoi morti di mafia ma anche le sue tradizioni, il disordine, la sporcizia, gli sguardi di bambini e donne (la Battaglia predilige i soggetti femminili), i quartieri, le strade, le feste e i lutti, la vanità ed il dolore, le contraddizioni, la vita quotidiana e i volti del potere. Una realtà raccontata da vicino, ad una distanza che permette di sentire il respiro dell’altro, di toccarlo allungando una mano. Letizia Battaglia non usa il teleobiettivo:

con il teleobiettivo le foto si assomigliano, non creo l’impatto e l’emozione tra me e l’altra persona. Con il teleobiettivo, stando a distanza, mi allontano da ciò che racconto. Io preferisco non usarlo. Ci sono fotografie bellissime fatte con il teleobiettivo ma io non le faccio. Se io ho una bambina, le dico “guardami”, oppure “non mi guardare”, ma glielo devo dire! Al mafioso non gli dico niente, però pure i mafiosi li ho fotografati da vicino.

Negli anni ’80 crea il Laboratorio d’If, dove si formano fotografi e fotoreporter palermitani: la figlia Shobha, Mike Palazzotto, Salvo Fundarotto. La fotografia ha riempito per molti anni la vita di Letizia Battaglia ma non è stata totalizzante: nel 1991 il suo impegno civile la porta ad essere consigliere comunale e poi assessore per i Verdi con la giunta di Leoluca Orlando.

Dal 2000 al 2003 dirige la rivista bimestrale realizzata da donne Mezzocielo, nata da una sua idea nel 1991. Espone in Italia, nei Paesi dell’Est, in Francia (Centre Pompidou, Parigi), Gran Bretagna, America, Brasile, Svizzera, Canada.

Nel 2003 stanca e disillusa da un clima sociale che trova privo di partecipazione e impegno, dallo spegnersi del movimento antimafia («non sopportavo più il silenzio»), da una Sicilia pigra che si è fatta sempre dominare e che non si assume senso di responsabilità, si trasferisce a Parigi per il semplice motivo che nella Ville Lumière un’amica le mette una casa a disposizione; ma avrebbe potuto essere qualsiasi altra città. Torna dopo due anni: “la mia vita è in Sicilia”.

Oggi Letizia Battaglia non ha più voglia di fotografare sciagure e le foto di morte seminata dalla mafia sono rivitalizzate dall’incursione di nudi femminili nella loro naturale bellezza che, senza civetteria o pose accattivanti, esprimono il desiderio di ricostruzione, di pace, di fecondità. La modella viene fotografata con alle spalle l’ingrandimento di un’immagine delle stragi. Letizia non usa photoshop, preferisce creare dei set dove il presente interagisce con il passato spostando il punctum dall’orrore alla bellezza:

Davanti a un uomo che spara, il ventre nudo di una donna che dà vita… donne bagnate perché l’acqua pulisce. Sono a un punto di speranza, voglio far crescere la gente. La mediocrità non l’accetto, neppure se consolatoria… Abbiamo straperso su tutta la linea. Ma senza perdere però la forza di andare avanti.
Oblio no. Infatti il morto è là. Tutto nasce dal fatto che non sopportavo più di essere così passiva davanti a queste fotografie. Facevo mostre, ma ero passiva. Aggiungere alle foto dei morti le foto dei vivi, dei giovani, dei bambini, delle donne, era un modo per inventarmi un’altra realtà, per spostare il famoso “punctum” dal morto ammazzato. Una donna nuda è la vita, è una madre, è la terra. Faccio questo: costruisco una realtà, aggiungo a una foto di morte una foto di vita. Un progetto riuscito? Non riuscito? Io ci ho provato.

Letizia Battaglia, una giovane di 83 anni, non ha più le energie per fare la cronaca, per andarsene in giro per Palermo ma anziché arrestarsi ha realizzato un progetto per il quale si è battuta per anni: il Centro Internazionale per la Fotografia, dove far convergere l’intelligenza per la fotografia ma anche per la musica, per la poesia, per l’arte visiva. Aperto ai giovani e ai vecchi.

Non mi piacciono le divisioni nella società. Adoro che i vecchi, le donne, i bambini e i giovani stiano insieme, perché c’è da imparare da tutti. Io posso imparare da una ventenne e una ventenne può imparare da me. E allora vorrei che fosse un luogo dove si cresca, dove arrivino i grandi lavori dei grandi fotografi, grandi nel senso di bravi, nazionali e internazionali.
Vorrei che i fotografi emergenti, quelli che non hanno spazio e che non hanno visibilità, avessero uno spazio dove esporre le loro opere.

Il Centro è stato diviso in due spazi, una galleria molto grande che ospita mostre di grandi autori e un altro per le mostre dei fotografi che vogliono farsi conoscere, attentamente selezionati.

La qualità è importantissima, così come la disciplina nel lavoro, la ricerca nel progetto. Non vogliamo fotografie superficiali. Nessuna fotografia in stile Facebook, poiché sono prive di cultura fotografica. Talvolta sembrano belle ma non hanno spessore.

Il Centro è pensato anche per ospitare l’archivio fotografico della città di Palermo. Un archivio formato da donazioni di grandi fotografi e da fotografie vecchie e nuove che raccontano Palermo, un archivio della memoria in permanente evoluzione, memoria con uno sguardo al futuro.
L’altro progetto riguarda l’organizzazione di corsi di fotografia, ovvero corsi di cultura, la fotografia intesa come parte di una cultura più vasta, perché un fotografo se non va al cinema, se non legge libri, se non ascolta musica non potrà mai avere una profondità, potrà avere talento, ma poi non regge, con il tempo il solo talento non regge.

Letizia Battaglia ha fotografato affinché il mondo sapesse, grazie ad un lavoro di documentarista che sottende un pensiero ed un rapporto emotivo con la realtà osservata. Detesta fotografare pensando alla rivista che pubblicherà le sue immagini ed è convinta che i risultati non dipendono dall’attrezzatura o da una sapienza tecnica bensì da un’osmosi di cuore e cervello, da una posizione politica e morale, da un progetto di vita.

Io sono una che ha fatto reportage rimanendo nella città dove vive. Reportage può significare tante cose, per ognuno cose diverse. Per me significa andare al cuore delle cose, di un luogo, di una città, di un gruppo di persone, cioè scavare con l’immagine. Io lego molto la fotografia al cinema: è come una creazione, anche se poi è la realtà. È una cosa complicata quella che ho appena detto, ma siccome sono vecchia le complicazioni si sono complicate!

Nel 2017 il New York Times ha inserito Letizia Battaglia fra le undici donne di tutto il mondo (insieme a lei attiviste, scrittrici e politiche) che dalla Francia all’Indonesia hanno lasciato il loro segno ed il MAXXI di Roma le ha dedicato un’antologica dal titolo “Per pura passione, duecento scatti, provini, vintage, documenti”. Per niente propensa ad abbandonarsi alla gratificazione di riconoscimenti così importanti, Letizia Battaglia continua a progettare. Nel futuro pensa di fotografare paesaggi, i paesaggi della natura, i paesaggi dell’anima.
Da assessore, negli anni ’90, Letizia Battaglia ha promosso interventi volti a restituire dignità, attraverso la bellezza, ad una Palermo martoriata dalla corruzione dei politici, dalle cicatrici profonde prodotte dalla Mafia.

Ho piantato molti alberi quando ero assessore, davanti al mare. A Porta Felice avevo piantato una settantina di palme, che in vent’anni, forse venticinque erano diventate alte. Era bellissimo, come un palmeto a Tunisi. Patrizia, mia figlia, aveva regalato un pino, che lì era diventato grande, meraviglioso. Un giorno passo di là e non vedo più le palme. Mi dicono che erano ammalate e così le hanno tagliate. Una rabbia… Eppure esiste una cura e con quattordici euro la palma si salva. Hanno tagliato pure il pino che non aveva niente. Hanno tagliato tutto. Perché? Semplice: c’è un progetto su questo spazio. […] quando io ho piantato le palme era uno spazio con le macerie della guerra, davanti al mare, per cui camion buttati, carcasse di animali, sedie rotte, una schifezza. I giardinieri l’avevano chiamata “L’oasi di Letizia”.
Abbiamo prima pulito, messo la terra nuova, portato l’acqua con le autobotti perché lì non c’era. È stato un lavoro di mesi, bellissimo. E poi vederlo distrutto così… Quando sono passata c’erano ancora i tondi dei tronchi tagliati. Fare tagliare una palma significa pagare cinquecento euro, ci hanno guadagnato tutti. […] Io ho fotografato questi tronchi. Loro hanno capito perché li ho messi su internet. Ora stanno facendo dei lavori di cui non voglio sapere di cosa si tratta…

Oggi Letizia ha un incubo ricorrente: che ne sarà del Centro Internazionale per la Fotografia dopo di lei? Che ne sarà del suo archivio fotografico? Nonostante l’angoscia provocata dall’esperienza, dalla volontà distruttrice di chi non ama la vita, Letizia continua a lavorare e a seminare per le future generazioni. Questo è sufficiente a rispondere alla domanda astiosa rivolta da qualcuno al Sindaco Leoluca Orlando che l’ha sostenuta nel realizzare il Centro: “Picchì idda?”.

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