
- di Gianluca Donati
Anni Trenta. Il dottor Frederick Frankenstein (Gene Wilder), un affermato neurochirurgo che vive e insegna in un’università negli Stati Uniti, è il nipote del celeberrimo dottor Victor Frankenstein; del quale rifiuta però le teorie scientifiche da lui ritenute assurde. Un giorno però riceve la visita da parte di un notaio, il quale gli comunica che il barone gli ha lasciato un castello in Transilvania in eredità. Nonostante la reticenza, Frederick accetta di recarsi al castello. Qui conosce Igor (Martin Feldman), nipote dell’assistente di Victor, il quale finirà per diventare l’assistente di Frederick. Nonostante lo scetticismo e il disprezzo per il nonno e le sue farneticanti teorie scientifiche, Frederick finirà gradualmente ma inesorabilmente per essere attratto dalle atmosfere del luogo, scoprendo il laboratorio segreto nel quale venne portato a termine il folle esperimento, e decidendo a sua volta di ripetere l’impresa, trafugando un cadavere per riportarlo in vita.

È difficile che non abbiate riconosciuto in questa descrizione, la trama di Frankenstein Junior cult-movie del 1974 per la regia di Mel Brooks. Infatti, il film è in Italia il classico di maggior successo della storia dell’home video con 500 mila copie di DVD vendute.
Si tratta della quarta pellicola di Brooks, campione d’incassi del ’75, indubbiamente il film più celebre e riuscito del regista, nato da un’idea del protagonista Gene Wilder, autore, insieme al regista, anche della sceneggiatura.
Frankenstein Junior è appartenente al genere “parodistico”, ma in realtà va ben oltre, rasentando il capolavoro. In primo luogo l’idea originale di narrare le vicende di un discendente del barone Victor che, a differenza dei tanti sequel seri di Frankenstein, non vuole avere niente a che fare con il suo illustre antenato.
Un film anni ’30

Ma soprattutto è l’aspetto tecnico-formale ed estetico che fa di Frankenstein Junior un omaggio a tutti i classici cinematografici. Il film, infatti, è interamente girato in uno straordinario bianco e nero (un’autentica pellicola in bianco e nero), con un uso sapiente delle luci e una direzione perfetta della fotografia, imitando egregiamente lo stile degli anni Trenta e usando anche le transizioni tra una scena e l’altra, omaggiando il look dell’opera originale “Frankenstein” di James Whale del ’31.
Per ottenere maggiormente l’effetto desiderato, Brooks richiama in servizio un ottantenne Ken Strickfanden che era stato lo scenografo del set del film di Whale, e usa addirittura gli stessi oggetti di scena del vecchio film, ricollocati nelle identiche posizioni, e medesimi studi di ripresa, e utilizza musiche usate nelle colonne sonore d’epoca, in una ricerca maniacale della perfezione.
Il film è comico ma con atmosfere horror, al punto che se non ci fossero le gag, riuscirebbe a spaventare come un vero film dell’orrore. E ciò fu notato dalla critica che recensì positivamente l’opera affermando che non si trattava di una semplice parodia, bensì, di una rivisitazione critica della storia scritta da Mary Shelley (autrice del romanzo dal quale fu tratto il film del ’31).
Risate… da paura

Molte le scene esilaranti che sono rimaste impresse nella memoria degli spettatori: come scordarsi gli indimenticabili sguardi in macchina di Feldman con i suoi occhi sporgenti? O la sua famosa “gobba mobile” che si sposta misteriosamente da destra a sinistra? E i siparietti tra Wilder e Feldman con Frederick Frankenstein che vuole essere chiamato “Frankestin” e Igor che insiste nell’essere chiamato “Aigor”. E ancora i cavalli che nitriscono ogni qual volta che viene fatto il nome di Frau Blücher (Cloris Leachman); oppure la scena in cui il mostro (interpretato da Peter Boyle) afferra per il collo Frederick e lui chiede aiuto a Igor e alla procace assistente Inga (Teri Garr), cercando di far loro capire che devono somministrare del sedativo al mostro, e i due cercano di indovinare la parola misteriosa.

O lo sketch nel quale, fuggito dal castello, il mostro incappa in un vecchio eremita cieco (Gene Hackman) che convito di aver a che fare con un muto, tenta goffamente di offrirgli la cena versandogli addosso del brodo bollente e accendendogli il dito pollice scambiato per un sigaro. Sono solo alcune delle divertentissime scene del film.
Il doppiaggio italiano s’impreziosisce poi della stupenda voce di Oreste Lionello, perfetto nel dare la voce a Gene Wilder. Il film vinse alcuni premi ed ebbe due nomination agli Oscar. Nel 2000 l’AFI l’ha inserito meritatamente al tredicesimo posto nella classifica delle migliori cento commedie americane di tutti i tempi.
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