
Pubblicato ore 12:00
Emilio Cacini, meglio conosciuto come Soldo di Cacio, è il protagonista del romanzo di Michele Cecchini “Il cielo per ultimo”, uscito nel 2019 per Bollati Boringhieri. In questa rubrica, il Cacini risponde alle domande dei suoi e dei nostri lettori.
Esimio Cacio
Nella sua risposta alla precedente lettera, risposta che ho letto con grande attenzione e interesse, vedo che lei correttamente attribuisce a Livorno lo status di polis incline all’accoglienza, un agorà di eguali che si apre all’ingresso di altri eguali e li ‘ingloba’ (mi passi il termine poco nobile) amalgamandone ma, attenzione, non cancellandone le diversità (e pazienza, forse, se vi è della hybris nel livornese consapevole di questa sua particolarità, in un mondo che al limite accetta, ma partendo da un presupposto pseudocoloniale di status quo che certo accetta ciò che è ‘altro’, purché l”altro’ da me sia simile a me, non so se riesco a spiegarmi).
Ebbene, il riferimento ai ‘fini intellettuali’, e per la cronaca io ritengo che colui che l’ha creata lo sia, mi fa sorgere una domanda che vorrei porgerLe: fino a dove può spingersi la cultura per essere divulgata? È legittimo ed opportuno farla uscire dalla torre d’avorio? Certo che sì, direbbero certuni e io fra questi, si badi bene, portarla tra la gente, nelle piazze, nei mercati, nei centri commerciali, perfino, o si rischia di svilirla e, mi si passi il gioco di parole, avvilirla? E una volta che la cultura è uscita dal suo sacro recinto, e sia sparsa nel mondo, fosse anche a beneficio del pubblico che guarda i quiz televisivi, e della tasca del concorrente ‘colto’ o quantomeno istruito, non si rischia che di sacro rimanga ben poco? Chi di noi non ricorda il proprio ‘battesimo’ culturale, un padrino o una madrina, letterari nel mio caso, ma i mentori possono essere d’ogni genere, che hanno fatto nascere il seme del gusto per la conoscenza? Ecco, quello che sto cercando confusamente di chiederle, non rischiamo di avere generazioni con mentori, padrini e madrine delegittimate?
Grazie ancora, esimio Cacio, per la risposta che vorrà darmi.
Giuseppe
Caro Giuseppe,
quanto alla prima parte delle sue riflessioni, lei si è risposto da solo. Quale migliore dimostrazione di accoglienza e di apertura, infatti, che la sua stessa lettera? Di cui la ringrazio, avendone apprezzato i toni garbati e le osservazioni. Alle quali stento a replicare. Istintivamente, Giuseppe, diffido delle affermazioni astratte, perché è facile che siano subito smentite dai fatti. Così provo a portare un modesto contributo alla discussione anche attingendo qua e là alla mia esperienza personale.
E in base a questa, come lei, fuggo via di volata dalla turris eburnea. Se i romanzi rimangono una faccenda riservata a pochi che parlano tra loro o, peggio, si parlano addosso, buonanotte. D’altra parte nemmeno bisogna forzare la mano nel verso opposto. La ‘sacralità’ – non poteva trovare termine migliore – va preservata certamente. Gadda diceva più o meno che la letteratura ha poco a che fare con “libagioni e salamini”.
Ma a me piace essere utopista, Giuseppe. Lo preferisco al cinismo e al disincanto. E siccome non ho alcuna intenzione di tirare i remi in barca, voglio essere utopista fino in fondo. Per cui le dico che, personalmente, auspico un movimento duplice, reciproco. Da parte di chi si esprime, che abbia da dire e voglia dirlo, ma anche da parte di chi fruisce, che sia disponibile ad accogliere. Altrimenti è come parlare ai muri.
Ora, c’è questa disponibilità? Io penso di sì. Al momento opportuno.
Alle brutte, Giuseppe, non se ne fa di nulla e si rimane a discuterne qui sopra. Ci si diverte lo stesso.
La abbraccio,
Cacio
© Vietata la riproduzione
Lascia un commento