
Pubblicato ore 12:00
Emilio Cacini, meglio conosciuto come Soldo di Cacio, è il protagonista del romanzo di Michele Cecchini “Il cielo per ultimo”, uscito nel 2019 per Bollati Boringhieri. In questa rubrica, il Cacini risponde alle domande dei suoi e dei nostri lettori.
Sig Cacini,
intanto mi voglio complimentare per la sua bella rubrica, che è a buon diritto una delle mie letture preferite, non so se le farà poi così piacere dal momento che le altre vertono quasi sempre su tematiche religiose. Già, io sono un prete, un prete che preferisce le fabbriche ai pulpiti, ma sempre prete rimango.
Guardi, spero che non se ne abbia a male, ma io ho trovato tanta spiritualità nel suo percorso, anche la sua collocazione in una città lambita dalle acque mi ha rammentato quanto l’acqua sia davvero fonte di vita materiale e spirituale, i vicini confratelli sono in ambasce per la poca pioggia che non riesce a far crescere fecondo l’orto e ugualmente io penso che le nostre anime siano davvero bisognose di essere innaffiate con la parola.
Ecco, e qui arrivo al punto, io vedo che lei utilizza la parola con spirito di servizio, non per bearsi del proprio saper esprimersi, ma per far nascere germogli che poi daranno frutti, ricordo in una delle prime lettere ne parlò con una lettrice che adorava inzaccherarsi nell’orto, se rammento bene. Lei crede che oggi la parola sia centellinata con attenzione o le pare piuttosto che sia gettata a pioggia ma non riesca a nutrire il deserto spirituale che ci circonda? Non urla più un silenzio assordante e significativo di molti proclami sparati nel vuoto? A me capita di commuovermi se penso che una goccia dell’oceano ha viaggiato fino a far crescere delle foglioline di insalata, mi sembra davvero di entrare a far parte di un cosmo che tutti accoglie e nessuno rifiuta. Non dovrebbe bastare questo pensiero ad aprirci all’accoglienza? Le sto facendo molte domande, forse retoriche, ma è che in lei ho trovato davvero spunti che meritano approfondimenti, lei è tutt’altro che un personaggio bi-dimensionale.
Grazie sig Cacini per le due chiacchiere che vorrà fare con me.
Come vede non le ho chiesto se crede in Dio, perché son segreti che ciascuno conosce in cuor suo.
Don Luca, Lucca (per ora)
Caro Luca,
che la mia rubrichetta sia annoverata tra le sue letture è per me motivo di orgoglio e di soddisfazione, altro che.
Condivido le sue riflessioni sulla parola e direi che fanno proprio al caso mio. Nel romanzo che mi vede protagonista, mio figlio Pitòre soffre di una forma grave di disfasia, per cui si esprime in un modo tutto suo, attraverso un linguaggio assurdo, fatto di parole inventate e che seguono una logica che chissà da dove viene. È un linguaggio fatto di espressioni strampalate, tipo “tallo”, “sdilencato”, “golbetico”, “fabado”: parole che capisce solo lui, e che ha cominciato a tirare fuori dopo un silenzio che sembrava interminabile.
Lì per lì, lei capirà, sono rimasto non poco spiazzato. Poi, come per tutte le cose, ci si comincia a fare il callo e si prendono le misure.
Da un lato, e qui arrivo alle sue righe, grazie a Pitore mi sono reso conto che la parola ha un potere evocativo enorme. Perché crea mondi, tutti plausibili, o male che vada sconquassa quelli che ci sono e li rinnova. Non potrà negare, Luca, il potere eversivo che c’è nell’atto di guardare il mare e dire: “Folmedìna”, come fa Pitore. I bambini, in questo senso e in molti altri, sono i più sovversivi di tutti.
Mentre eravamo ad aspettare fuori dall’asilo, un babbo mi ha raccontato che suo figlio, quando si fa il segno della croce dice: “Padre, Figlio, Spirito Santo… Mare”. Altro che “Amen”! “Mare” è una sintesi perfetta – oltretutto in linea con il contesto livornese.
Le confesso che io alle paroline di Pitore ormai mi ci sono affezionato e alla fine mi dispiacerebbe se un giorno lui la smettesse con tutti i suoi “gagnòle”, “covitta”, “cimio”, “proderna”. Ho tentato di trovarci una qualche logica e, lungi dall’esserci riuscito, oggi posso tuttavia dire di avere instaurato con mio figlio un dialogo assai soddisfacente.
Insomma, Luca, secondo me le parole non solo sono importanti, perché chi parla male, pensa male e vive male, per dirla con Michele Apicella, ma perché la parola detiene una ‘sacralità’ da cui è bene non prescindere mai. Le parole vanno maneggiate con tutta la cura e il riguardo di cui si è capaci. Anche perché fanno presto a darti delle fregature, e tutti ne abbiamo fatto esperienza.
Nei giorni scorsi bene ha fatto a mio avviso l’Accademia della Crusca a prendersela con una circolare ministeriale in cui è stato usato, a proposito dei vaccini, il termine “booster” anziché il più tradizionale e consolidato “richiamo”. Al di là di tutte le dissertazioni che si potrebbero fare sui forestierismi, qui secondo me è rintracciabile una certa dose di approssimazione, che non tiene conto della esigenza di chiarezza. Le parole richiedono a chi le usa un profondo senso di responsabilità.
D’altro canto, visto che con Pitore le parole non erano un terreno condiviso, ho cominciato a bazzicare nuove zone, cercando cioè forme di comunicazione alternativa: istintiva, animalesca, la definisca come preferisce, Luca, ma che aggiri le parole o, rispetto alle parole, vada oltre. Un abbraccio, una carezza sulla nuca, piegarsi sulle gambe per guardarlo negli occhi, condividere un po’ di tempo davanti al mare, cucinare o una qualsiasi altra attività insieme. Ho capito che il solo condividere con lui un poco di silenzio, quel silenzio che lei evoca, liberi dai lacci delle parole, già significa stabilire un contatto sincero e profondo.
Luca, non mi fraintenda: io detesto le affermazioni di principio e lungi da me pontificare. Le parlo solo in virtù della mia piccola, modesta esperienza: per comunicare davvero, credo che si debba varcare candidamente il proprio perimetro di riferimento e con temerarietà visionaria attraversare altri territori, ancorché impervi.
Che cosa fa del resto Geppetto con Pinocchio? Molla tutto, piglia e parte.
A proposito di Mastro Geppetto, un personaggio che mi è molto caro e nel quale un pochino mi ritrovo, le segnalo l’ultimo romanzo di Fabio Stassi, uscito giorni fa, dove l’autore rivede a suo modo questa favola. Senta qua, Luca, a proposito di parole, di coraggio e di candore: “Lo chiamano mastro Geppetto, per storpiargli anche il nome, ma la sua stessa anagrafe è già una bestemmia: Giuseppe, Giuseppetto, Geppetto, un santo in burla, uno scherno, la cantilena che accompagna tutti gli uomini che vivono da soli. La verità è che la sua Nazareth è un borgo cattivo sul dorso di un appennino che ha per gioco preferito quello di lapidare gli scemi, i senzafamiglia e i morti di fame”.
Stia bene Luca, io la abbraccio con affetto.
Cacio
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