
Pubblicato ore 12:00
Emilio Cacini, meglio conosciuto come Soldo di Cacio, è il protagonista del romanzo di Michele Cecchini “Il cielo per ultimo”, uscito nel 2019 per Bollati Boringhieri. In questa rubrica, il Cacini risponde alle domande dei suoi e dei nostri lettori.
Per i mesi di agosto e settembre ho deciso di sospendere la rubrica della Posta per lasciare spazio ad alcuni amici scrittori di matrice labronica chiedendo loro di elaborare una breve riflessione intorno a una questione secca e tuttavia enorme: PERCHÉ SCRIVO.
Naturalmente, questo spazio è aperto e a disposizione di tutti gli scrittori e scrittrici che vorranno dare il loro contributo. È sufficiente che scrivano alla redazione. Vi ricordiamo che, a conclusione di questa “pausa”, tornerò a rispondere alle lettere dei lettori.
Chi sia Alice Cappagli, non occorre dirlo. Né ha senso ricordare che ha suonato il violoncello nell’orchestra del Teatro alla Scala dal 1982 al 2019. Come del tutto superfluo sarebbe accennare ai due romanzi che ha pubblicato recentemente per Einaudi: “Niente caffè per Spinoza” e “Ricordati di Bach”. Della eco e dell’accoglienza che questi due testi hanno ricevuto, tutti già sanno.

Quello che merita essere detto, per conto mio, è una notazione che infatti è del tutto personale: anche Alice, come il sottoscritto, ha scelto di ambientare alcune porzioni del primo dei due romanzi a Villa Pernigotti, da lei ribattezzata – chissà perché – Villa Fabbricotti.
Io frequento questo parco con Pitore, perché lì non c’è traccia di malinconia. Rincorriamo i piccioni, cerchiamo di capire dove vanno i palloncini quando sfuggono di mano ai bambini, guardiamo i busti dei personaggi storici: l’inventore del punto e virgola; l’artefice della formula per non fare invecchiare i proverbi; colui che ha stabilito il record di persone salutate in un giorno.
Anche Maria Vittoria e il Professore, i personaggi di “Niente caffè per Spinoza”, passeggiano nel parco. Loro discutono di filosofia. E chissà se anche loro aspettano il ruggito di Mirtilla, la tigre della gabbia centrale. Così lei scandisce il tempo di Ardenza Mare ed è il suo modo di far sapere che, almeno per il momento, va tutto bene.
Ringrazio Alice per la disponibilità e la generosità, avendomi inviato di volata il suo “Perché scrivo”, che giro con grande piacere ai nostri lettori.
Cacio
Perché scrivo
Ho sempre scritto, magari due frasi buttate giù che escono dal pentolino della vita che bolle. Come succede col latte dimenticato al fuoco: spegni il gas per salvare il resto che serve per farci qualcosa che non sia imbrattare i fornelli. Nel mio caso la colpa è stata del cervello: troppi pensieri, troppi progetti, troppi ricordi, troppe immagini, a volte troppa musica nelle orecchie. E poi troppa nostalgia, troppa solitudine (pur nel caos e in una socialità forzata), troppi viaggi, troppi traslochi, troppo ridere e troppo piangere.
Per molti anni ho scritto e buttato via tutto, e ce n’è voluta prima di arrivare alla conclusione che forse potevo condividere qualcosa. Colpa della filosofia più che della musica, perché l’una va di logica e di giudizio, l’altra va di trascinamento, empatia, impressioni e tecnica. A mettere insieme i due pezzi poteva uscire fuori la forma di un romanzo. Anche perché l’unica cosa che mi è chiara prima di scrivere è il senso ultimo, il messaggio. Il resto ci volteggia intorno ed è attratto dal senso come il magnetismo terrestre nella caduta dei gravi. Prima o poi personaggi, situazioni, parole, ci cascano dentro e ci si spiattellano, spesso portando qualche altro grumo di senso che non avevo ancora messo a fuoco.
In altre parole scrivere è una forma di solismo, lo dico solo perché il mio lavoro è stato la violoncellista. Un musicista, uno strumentista bravo sa cosa raccontare quando suona e sa mettere qualcosa di sé nelle pagine che quasi sempre non ha scritto lui. Questo perché si sa appropriare di un senso che la musica suggerisce, lo sa cogliere e rivelare a chi lo ascolta. È una cosa di grande soddisfazione, faticosa certo, bisognosa di studio e di lavoro però regala appagamento spirituale e la percezione di contribuire alla realizzazione di un’opera che è infinita: trasmettere bellezza, condividere un vissuto, a volte consolare.
Credo quindi che lo scrivere non sia molto diverso perché la tecnica e l’ordine ci vogliono, come pure uno sforzo empatico nei confronti di un lettore invisibile che ha lo scopo di completare l’opera leggendo così come un ascoltatore ascoltando. Davanti allo schermo bianco si è soli, si tesse col filo che esce da un’elaborazione personale e spesso è un lavoro che dà corpo e struttura a chi lo fa come pure rivela una falla nel tessuto dei propri ricordi o delle proprie intenzioni. E poi chissà che non faccia bene alla salute, dopo una bella nuotata in mare beninteso. Specialmente se si fa a Calafuria.
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