Saldo di Cacio: la lingua italiana e le parole straniere

A scrivere è il personaggio del romanzo di Michele Cecchini

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Pubblicato ore 12:00

Emilio Cacini, meglio conosciuto come Soldo di Cacio, è il protagonista del romanzo di Michele Cecchini “Il cielo per ultimo”, uscito nel 2019 per Bollati Boringhieri. In questa rubrica, il Cacini risponde alle domande dei suoi e dei nostri lettori.

Caro Cacini salutiamo, come diciamo dalle mie parti.

Seguo la sua pagina, segnalatami da cari amici toscani, da molto lontano e per conoscerla meglio ho appena finito di leggere il libro che narra di lei. Che dire, signor Cacini? Io che sono stato a Livorno solo una volta mi sono sentito di nuovo investito dal vostro ruvido salmastro. So che il suo autore, nonché creatore, è insegnante esimio ed eccellente di lettere. Che ne pensa della parafrasi? È generalmente usata come esercizio scolastico, ma non dovrebbe essere usata anche per tradurre l’astruso italiano ormai utilizzato in ogni campo, e straziato vieppiù nell’etere? O preferisce la perifrasi quale circonlocuzione imposta?

Sono rimasto colpito dall’utilizzo che viene fatto delle parole nella sua vicenda, soprattutto dalla creatività di Pitòre, questo perché, chiamandomi Tigellino in quanto greco di origine, fin dalla più tenera infanzia dovetti fare i conti con la curiosità, quando non con lo scherno, che mi giungeva, io incolpevole, per il solo fatto di avere questo nome ritenuto bizzarro, e sa il Cielo quanto a lungo invidiai mio cugino Michele, omonimo del suo autore, per il suo nome mai imbarazzante.

E qui arriva un’altra domanda: quanto di noi viene forgiato dall’essere descritto, quanto la parola definisce e marchia qualcuno o qualcosa, secondo lei? Ci penso quando vedo l’abuso di termini inglesi o pseudo-tali: investire in bitcoin sembra senz’altro più allettante di lavorare in miniera come i preziosi personaggi regalatici dal sommo Verga, di cui scopro lei essere estimatore, ma siamo sicurissimi che non ci conduca a una miseria simile assai? Grazie e ancora grazie per la risposta che vorrà darmi.
Un saluto riarso dal sole.
Tigellino, Selinunte

Bentrovato Tigellino.
Non si crucci del nome, anzi: le dà modo di aggirare eventuali omonimie. Le confermo che il mio autore gradisce il proprio, anche perché quando gli scrivono una lettera si parte già con una bella citazione, nel senso della Ginzburg. Un po’ meno gli sconfinfera il cognome, di questi tempi poi.

Lei mi chiede della parola, Tigellino. Io credo che la sua funzione creatrice sia tutto: di mondi e di possibilità. Dato che niente manet, le parole hanno almeno il merito di volare e di farci volare.
Sullo specifico del lessico, le dico la verità, non ho le idee chiare. Quel poco che posso dirle riguarda un fastidio – fisiologico, di cui non saprei esplicitare l’origine – che talora provo di fronte a certe manifestazioni contemporanee.
Premetto che l’italiano standard del televisionese mi garba poco o nulla. Lo trovo piatto, sciatto, privo di guizzi, e allora mi vien da rivendicare sia la mia appartenenza toscana, sia la sconcertante magnificenza dei dialetti, un vero e proprio serbatoio di storie e di cultura. L’altro giorno un amico mi ragionava di una delle ipotesi relative al termine “cafone”. A Napoli, i forestieri sprovveduti in giro per mercati erano soliti stringere una corda per non disunirsi e perdersi: ca’ fune, appunto. Ignoro il grado di attendibilità di questa cosa, Tigellino, ma gliela riporto perché mi garba un monte a prescindere.
Ma torniamo a noi: alla fine non mi dispiace che l’italiano accolga i forestierismi e si dimostri una lingua inclusiva. Soprattutto, quando con certe espressioni non si può fare altrimenti: quelle legati alle nuove tecnologie, per esempio, o a fenomeni elaborati di recente. Per cui, che ne so, se un “boomer” dispone di uno “smartphone”, per me ha voglia lui di metterci le “app”. E le confesso che io non “cliccherei” mai con il “topo”. Da grande estimatore di Fenoglio, non posso che nutrire parecchia simpatia per gli anglicismi.
Invece mi incupisco quando del forestierismo non c’è bisogno, ma lo si usa per darsi un tono. Alla fine una “call” è pur sempre una telefonata, a un “briefing” ci si continua a riunire come al solito e se uno fa uno “speech”, alla fine discorre. Va bene che la lingua (la forma) necessariamente si evolve, ma credo che qui ne vada della sostanza: almeno per quanto mi riguarda ne esce peggiorata, perché si sente puzza di fuffa.
E contestualmente pullulano acronimi e sigle che hanno il merito di semplificare, velocizzare, ma così immiseriscono la parola, la grazia dell’espressione in sé.
Io non mi lascio facilmente blandire e se devo evocare forestierismi, Tigellino, penso all’eleganza contenuta nei suoni “reportage”, “vetrage”, “beige” o, per uscire dalla Francia, alla musicalità di “espadrillas”. Sono termini che non si usano più. Forse li ho cari perché “vintage” (ecco fatto), e a parlarle è solo un ippopotamo nostalgico e un po’ imbranato di fronte ai rivolgimenti lessicali contemporanei.
Così finisco sempre per sentirmi fuori posto. Anzi, per sbagliare “location”.
Insomma se ci si incrocia, Tigellino, sarò lieto di offrirle un cordiale o un tamarindo. Se poi lei preferisce un “cocktail”, non si periti. Mi frugherò comunque.
Mi stia in gamba, mi raccomando.
Cacio

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